poi la morte

Ci limitiamo ad osservare

il grande miracolo della vita nella vita,

Affannandoci, misuriamo,

confrontando vita e morte,

Illudendoci di un qualche controllo.

Ma la vita resta vita

e la morte resta morte

e il nostro righello di ultrasuoni può

solo constatarlo.

In un attimo la vita diventa morte

e il senso di tutto sfugge.

“ L’inquilino” di Roman Polanski

Il film “ L’inquilino del terzo piano” diretto e sceneggiato da Roman Polanski, è l’ultimo della “Trilogia degli appartamenti” . Ambientato in una Parigi anni ’70, ci mostra gli avvenimenti bizzarri e inspiegabili che travolgono la vita del giovane immigrato polacco Trelkovski. Il film è un crescendo ben dosato di rabbia, mistero e paura che culmina nel suicidio del giovane protagonista. Egli via via si convince di essere oggetto di un complotto e di un antico rituale egizio volto a far reincarnare la vecchia inquilina di casa sua, Simon Choule, nel suo corpo e infine di farlo suicidare.

Polanski ci offre uno sguardo sul tema della paranoia, esplorata nei suoi recessi più oscuri seguendo la regola di Fleming, M. Manvell, R. (1985) “Se per lo psicologo la pazzia è innanzitutto qualcosa che deve essere misurato e poi curato, per il registra è principalmente un soggetto la cui raffigurazione sonda il più oscuro e nascosto lato del nostro essere”. Trelkovski è un personaggio ermetico di cui non sappiamo nulla e di cui nulla traspare. Sembrerebbe un tipo riservato, accondiscendente, educato ma è in realtà un nevrotico.

Segue la descrizione che Kretschmer, nel suo saggio Der sensitive Beziehungswahn (1918) dà del delirante sensitivo “ha un temperamento astenico, dominato da ipersensibilità alle relazioni, sentimenti di vergogna, introversione e qualità ipercritiche.(…) si mostra manifestamente timido, inadeguato, interpretativo, ipercaptante, scrupoloso e perfezionista” . Il protagonista non riesce a rinunciare a conoscere i dettagli del suicidio di Simon, meticolosamente ricostruisce la sua vita tappando dei buchi logici con conclusioni fantasiose. Nasce così un “delirioide”, una spiegazione bizzarra ma funzionale ad una narrazione coerente. Nel fare questa operazione il suo carattere sensitivo si dirige inesorabilmente verso la  frammentazione dell’io e verso la completa identificazione nella Choule. Da nevrotico diventa psicotico. Durante lo svolgersi della pellicola vediamo come il personaggio sia bombardato da tutta una serie di doppi binari logici (stimoli “schizofrenogeni”, vedi alla fine) dapprima coerenti e facilmente filtrabili dal protagonista è poi sempre più pesanti e invadenti per il suo spazio interiore già provato, che viene progressivamente inquinato da immagini insensate.

I pensieri si affollano in massa nella mente del polacco, sovrapponendosi al suo vissuto quotidiano fino a sostituirlo, dapprima solo di notte, alla fine anche di giorno. La sua personalità ne è provata, dematerializzata: dalle singole sfaccettature di ciascuno dei pensieri fissi, che non riescono a defluire dalla sua mente, viene così a costruirsi un io artificiale che funge da matrice di lettura alterata delle cose e della realtà. Il delirio è uno sguardo doppio sull’immagine del mondo che, come nella diplopia, permette di vedere due mondi e di avere quattro occhi.

Lentamente la narrazione psicotica si evolve e si distacca dal suo primitivo scopo di “tappabuchi logico” assumendo sempre più la forma schizofrenica. E’ così che viene fuori il vero delirio di cui parla Jaspers, che altera totalmente sia l’io che la realtà percepita dal protagonista. Lo sviluppo di un nuovo sé porta a trovare che anche il comportamento degli altri sia sempre più alieno, strano, minaccioso e questo genererà uno spettro di emozioni incontrollabili. Il tutto culminerà nell’alienazione dalla quale l’unica via di fuga è la completa identificazione in Simon Choule. Correlativo fisico di questo annientamento psichico è l’annientamento del corpo, celebrato nel suicidio rituale. Svolto anch’esso due volte. Alcuni Autori dicono che “ L’inquilino del terzo piano”,  dimostrerebbe il ruolo attivo della società nella dissoluzione della personalità del protagonista, eseguito con strumenti persuasivi e della pressione sociale.

Sono in parte d’accordo ma mi piacerebbe invece concentrare l’attenzione su una lettura diversa della società, intesa come “grande assente”. Nella società in cui si svolgono i fatti sembra mancare il patto sociale: i rapporti che si intrattengono sono superficiali o estremamente codificati. Trelkovski è uno dei tanti uomini abbandonati a sé stessi: lui non ha la volgarità psicologica del suo amico Scope, che ha sviluppato strumenti aggressivi verso gli altri per sopravvivere, che se non c’è il bagno urina nel lavandino o mette la musica a tutto volume solo per aggredire qualche vicino inerme. La sua reazione all’abbandono è l’oblio, il suicidio. Ad abbandonarlo sono i condomini che non esitano a denunciarlo alla polizia, il funzionario di polizia che invece di chiedersi cosa possa fare un uomo così innocuo di notte, ritiene più utile investigare sulla sua nazionalità e sul suo domicilio, , la sua amante, Stella, che sminuisce segni e sintomi della malattia  e il medico che si rallegra (neanche tanto) perché la gamba non sia fratturata e gli nega il ricovero (che gli avrebbe salvato la vita). L’unica volta che lo stato sociale interviene attivamente nella vita del protagonista è con una endovena di sedativo. La psichiatria così è strumento ultimo di alienazione e induce un effetto paradosso che lo indurrà al suicidio.

Nemmeno dopo che si è defenestrato e giace al suolo con tutte le ossa rotte potrà sperare in un po’ di pietas: la portinaia sottolinea che i vetri li avevano appena cambiati, la vicina Madame Dioz commenta la sconcezza del vestiario e il proprietario di casa,  Monsieur Zy, sembra volerlo  coprire per non fare troppo scandalo in quel condominio così rispettabile. La “tempesta perfetta” della malattia mentale vede il perfetto connubio di una predisposizione genetica, un ambiente promuovente (il condominio) e uno stimolo iniziante (l’appartamento della suicida). Ma allora è proprio vero che è la nostra società è schizofrenogena?

Il film è ricco di doppi messaggi di questo tipo: Simon è viva e morta, la casa è libera ma non è ancora libera, Monsieur Zy dice di evitare i poliziotti ma poi ammette che ne parlerà col capo della polizia, le sigarette sono contemporaneamente Galuoises e Marlboro, il cameriere mentre lo ringrazia per la mancia lo caccia dal locale, un poliziotto gli chiede di non fare pazzie e l’altro lo giudica sprezzante. Un film come questo svela uno dei non detti della nostra società: il paradossale è insito nella nostra esistenza e forse ne è il senso più profondo. La malattia mentale, in tutta la sua drammaticità e complessità, è quindi una malattia del collettivo e quindi la psicopatologia è patologia dell’inconscio collettivo? Film del genere aiutano a farsi le domande. E ognuno di noi ha e non ha le risposte.

Bibliografia:

https://www.academia.edu/38684262/L_INQUILINO_DEL_TERZO_PIANO_Una_finestra_sul_mondo_paranoicale

https://rolandociofi.blogspot.com/2012/05/linquilino-del-terzo-piano-cura-di.html

Roman Polanski: The Pocket Essential Guide
by Daniel Bord

AMERICAN PSYCHIATRIC ASSOCIATION
ESTRATTO DAL DSM-5

IL MONDO NELLA TESTA. SUL DELIRIO DI RAPPORTO SENSITIVO
DI ERNST KRETSCHMER ANTONINO TRIZZINO

Cosa significa essere medico?

E’ una domanda che mi pongo spesso.  Non ho mai frequentato più di tanto i miei colleghi di corso perché spesso -involontariamente- si finisce per parlare di quelle tecniche o di quella malattie che in un contesto ” laico” hanno davvero poco di piacevole. Ci sono persone che, fuori dal loro contesto universitario e specialistico, davvero sembra che valgano poco. Temo che alcuni si circondino di una crew di persone rodate, proprio per non sentire il peso di quel senso di nullità che si sente nel non essere pienamente compresi dai non addetti ai propri lavori. Secondo me la chiave che un giorno distinguerà ciascuno di noi come un bravo medico e un cattivo medico è, Sì!, la tecnica (il sapere come agire, quando, come, dove) ma soprattutto il SE agire! E’ questa la discriminante tra un algoritmo informatico di intelligenza artificiale e un uomo: sapere avere la leggerezza di una farfalla nell’affrontare tutte le sfide che pone la vita davanti ma sfoderare nel momento opportuna la violenza di un puma. Sapere fare le scelte giuste, al momento giusto. Avere il coraggio di fare quella scelta, sebbene avrà delle conseguenze, anche se va oltre le correnti di macro-pensiero in voga. La scelta, anche se posta così sembra veramente una banalità, è invece al centro della speculazione di grandi pensatori come Kant, Heiddeger, Sartre… E non può essere ignorata perché discriminante tra la vita e la morte e radice di conseguenze imprevedibili non solo sulle nostre vite ma su quelle di persone, di intere famiglie e di intere comunità.

Se analizzo la mia settimana, sono immerso in una routine disarmante. Al mattino mi sveglio presto, attacco a studiare, faccio qualche pausa, pranzo, riprendo a studiare, e faccio questo fino alla tarda sera. Questo schema si ripete ogni giorno, con le dovute variazioni di tempo, di orari, di altri impegni, ma la certezza è che accada, quotidianamente da almeno 6 anni. Il giorno in cui mia nonna ci ha lasciato, ho staccato. Ho pianto. Sono andato al cimitero. E poi sono tornato a casa e ho studiato. E’ l’università, bisogna studiare per fare gli esami, per laurearsi. Per poi boh, diventare qualcuno. Per diventare un medico. Io a questa storia un po’ astratta ci ho creduto e ci credo tutt’ora. Ma devo dire una cosa: nessuno mi aveva preparato a quanto tutto questo avrebbe fatto schifo. Esami talmente giganteschi da dover programmare ogni minuto del tempo con tabelle di marcia precisissime. E così programmare ogni semestre, mese, settimana, giornata.. Ogni uscita con gli amici, prima banale, va programmata in maniera quantomai attenta.. Quante persone ho dovuto lasciare indietro, sulla strada, perché non potevano capire il mio processo. Quante ne lascerò per lo stesso motivo? Tante. E’ un sacrificio continuo e la cosa paradossale è che tutto questo caos derivi proprio dal tentare di mantenere in ordine il tutto.

Ai primi anni di questo scempio, mi sentivo come un vero e proprio scienziato alla ricerca del perché delle cose. Un po’ come tutti, mentre facevo la cosa che amavo, cercavo anche un po’ me stesso. A testimonianza di ciò il fatto che quando entrai a medicina avevo la malsana idea di fare lo psichiatra.. Poi le cose sono un po’ cambiate ma la cosa più inquietante è che io sono cambiato.. E ancora cambio. Velocemente. Tra questi cambiamenti continui e quotidiani sono avvenute grandi rivoluzioni Copernicane. Che hanno lasciato quel segno e sono i punti fermi per cui io sono quello che sono e penso quello che penso.
La prima grande rivoluzione sono state la biochimica e la biologia ovvero il meccanicismo-materialismo . La vita di cui si interrogavano i filosofi è di per sé costituita da processi complessi ma scomponibili in parti molto ridotte. Ciascun processo è fatto da cose scomponibili in pezzi molto piccoli, atomi etc Ma le forze che a noi interessano nella biologia sono forze alla fine debolissime che niente hanno a che fare con le grandi forze che tengono insieme le galassie o le stelle. Ma che si sono rivelate evoluzionisticamente le più forti di tutte. La forza della delicatezza, spettacolo. La vita è quindi costituita da un insieme di cose non vive che tenendosi insieme con forze debolissime fanno un qualcosa che noi definiamo organismo vivo. Vivo è tutto ciò che nasce, cresce, si riproduce e muore, quindi per definizione anche i cristalli dovrebbero esserlo e la differenza fisica più lampante delle cose vive è che a differenza di tutto il resto dell’universo, si oppongono all’aumento dell’entropia, al disordine(MORTE), ordinando (DNA, proteine etc). Ma che meraviglia di roba è.

La seconda vera rivoluzione fu l’anatomia. Non quella sui libri né quella delle brutte lezioni dei miei prof. Quella di quando iniziai a frequentare la sala autopsie. Ricordo ancora il rumore che fece il primo scalpo che vidi aprire. Il clack delle coste. La consistenza del cervello stracciato letteralmente dalla fossa cranica. Ricordo che quella volta c’era R., una collega speciale, che poi per qualche motivo mi è rimasta dentro e che a cui ho finito per volere sinceramente bene. Il cervello era proprio piccolo. Il fegato molto grande. Insomma, non capivo un cazzo. Comunque quelle esperienze di morte servirono a peggiorare la mia già cagionevole salute mentale ma mi fecero percepire una grande verità: siamo degli ammassi di carne e ossa in piedi per qualche motivo. Strutturabili e aggiustabili con gli stessi identici strumenti con i quali possiamo essere destrutturati. Nesso indissolubile tra body horror e cura.

Un giorno per i tirocini di semeiotica clinica, finii in un reparto di chirurgia generale. Non facemmo assolutamente niente ma toccai un gozzo multinodulare alla tiroide di una signora. E mi sentii un deficiente quando confusi la laserterapia con un trattamento estetico. E allora che ci fu di rivoluzionario? C’era gente viva. Gente vera. Gente che si doveva togliere punti dopo interventi veri. C’era gente che teneva un la milza enorme, una milza tanta (gesto delle mani). Gente coi lipomi, schizzi di sangue. Cioè, stavo finalmente dietro alle quinte e mi piaceva tantissimo e allora decisi di voler fare il chirurgo. Fui ultra felice. E dopo qualche giorno divenni ultra triste, perché conclusi che avrei avuto a che fare per tutta la vita con la sofferenza. Fu questa la terza rivoluzione:  i malati. Scoprire che il mio parco giochi fosse pieno di persone che soffrono e che la mia passione era la cura delle persone, estirpare il dolore dai loro corpi. LA mia passione era il conservare la stessa vita.

La quarta rivoluzione avvenne il primo e ultimo giorno che misi piede nel reparto di oncologia. I volti dei pazienti li ho tutti stampati in testa. La signora Rita, con un cancro terminale del fegato, era un po’ goffa perché aveva un pancione enorme. Io ingenuamente, pensai che fosse incinta. Ma uno specializzando mi chiese di fare l’esame obiettivo di quell’addome e appena posi la mia mano sopra, sentii il segno del fiotto. Quell’addome era pieno di liquido ascitico. La signora aveva una insufficienza epatica avanzata. Io avevo confuso la vita con la morte. Ed effettivamente ricordo l’istante in cui alzai gli occhi e vidi che le sue sclere erano gialle. Gialle come l’oro. Mi misi vergogna per i miei stessi pensieri. Quella signora aveva un cerotto transdermico con un derivato sintetico della morfina. Ma non le funzionava più. Pensai che mentisse, che ne fosse assuefatta. Qualche tempo dopo, studiando il trattato di farmacologia, scoprii che quel cerotto era decine di migliaia di volte più potente della morfina. E che non avevo capito niente del dolore di quella signora. Il dolore degli altri non si può capire e bisogna averne sempre rispetto.

In quella stessa giornata incontrai il signor Gianni, un uomo sulla cinquantina, pieno di energia, che era appena tornato da un viaggio in barca a vela perché con un po’ troppo di mal di pancia, un dolore strano, a barra posteriore, che aveva insospettivo il medico di pronto soccorso che gli aveva fatto fare direttamente una tac e che così aveva scoperto un tumore del pancreas. Questo cancro silenzioso gli aveva infiltrato qualsiasi organo vicino, aderendo a ogni possibile struttura per non poter essere estirpato. Non contento gli aveva metastatizzato a mezzo peritoneo, ai polmoni, alle ossa, al fegato. Avevo da poco studiato il tumore del pancreas e quell’uomo, che ad un primo occhio sembrava perfettamente in salute, era un morto che camminava. Per l’ennesima volta avevo scambiato la vita con la morte. Mi sentii male ma continuai a recitare la mia parte finché non uscii dalla stanza e me ne andai a vomitare. Piansi perché non avevo capito il cazzo di niente da quei libri. Il dottore mi seguii e mi diede dei biscotti da mangiare. Li mangiai, li aveva portati la signora Rita. Erano dolcissimi ma i più amari che avessi mai mangiato.

Fu molto difficile decidere in quale reparto chiedere la tesi. E dopo un po’ di titubanze, optai per ginecologia. Lo dico una volta per tutte: perché ti permette di trovare il giusto mezzo tra l’essere un clinico al letto del paziente e fare il chirurgo in sala operatoria. Cosa vera, ma poi scoprii che era anche non vera. Mai avrei immaginato che fosse un reparto così dinamico e pieno di occasioni. Mai avrei immaginato che le cose cambiassero così in fretta. Prima cosa assurda: le cose che avevo studiato nei miei libri, erano vere. Le terapie le facevano davvero secondo quelle linee guida che mi chiedevano all’esame. Seconda cosa assurda: gli stessi che mi fecero l’esame me li trovavo in sala operatoria. E certo che non gli doveva andare bene come gli spiegavo una procedura chirurgica, se io l’avevo solo letta mentre lui l’aveva fatta migliaia di volte! Sto capendo un po’ la mentalità accademica e i rapporti complessi tra persone e strutture gerarchiche. Che alla fine questi ospedali sono un po’ come degli organismi viventi dove tutto ciò che sembra stabile non lo è assolutamente e che non ci sono amici o nemici “puri” ma solo in funzione di cosa ti serve in un determinato momento. Sono sconvolto da questa realtà che mi pervade in ogni momento e mi cambia, come l’acqua del mare rivoluziona la disposizione dei granelli di sabbia della riva ad ogni onda.

Conosco il mio percorso, so da dove vengo, immagino dove vado. Ma persistono in me ancora delle domande irrisolte, che mi portano a riflettere sul mio percorso, sulle persone meravigliose che ho incontrato e sulla gente di merda di cui gli ospedali sono pieni.. E mi chiedo: cosa significa davvero essere medico?

Insignificante

Quella sera in cui sei stata con me
è stato tutto come ho sempre letto
nei libri più belli e negli endecasillabi sciolti.

Quel profumo che ti ho regalato
e quei tuoi occhi che si specchiavano
nei miei, il rumore del mare,
un falò spento.

Quel profumo mi è rimasto
dentro al cervello; è
ancora così tangibile che quasi
lo tocco con le mani.

Stasera so che sei uscita con lui e
l’hai messo. Lo sento.
Lui, chiunque sia, ora è un Prometeo che
sta rubando il fuoco. Inizia sempre tutto così.

Io quel profumo, quando te lo regalai
l’avevo pensato proprio su di te,
era per te.
Mai avrei immaginato
che qualcun altro l’avrebbe
sentito su di te.

E’ lui ora a imprimere diamanti
sul tuo collo, e non ci avrei mai pensato,
ma è lui ora a sfiorarti i capelli con le mani
Condivide con te chi lo sa quali pensieri, probabilmente, insignificanti.

Io ora vorrei risentire quel profumo:
vorrei un elettrodo nel cranio,
un farmaco, una droga, una botta in testa
un qualcosa che mi faccia
ripercepir-ti.

Mi resta solo questa mia poesia
che lentamente svanisce
e si sta disgregando e mentre
la scrivo, si dissolve e mi dissolve
con una banalità disarmante.

Ma come posso riuscire a scrivere di cose così assurde,
di fatti che si confondono con le emozioni,
usando un linguaggio?

Restano i sogni, sono belli ma la stanza resta fredda,
non ci sono più le nostre mani che si stringono
e quando mi risveglio è straziante.

Quanto è incomprensibile che tutto inizi
tanto lo è che tutto finisca.
Non dico solo gli amori, le amicizie
ma proprio la vita intesa come
sta cosa che ti è stata data.

Io non l’avevo chiesta, la vita.
Io non avevo chiesto il dolore.
Io, qualsiasi cosa significhi “io”,
non avevo chiesto queste
infinite possibilità che mi immobilizzano.

Io, nel frattempo che ci penso,
resto comunque qui,
a respirare  comel’albero le cui radici
vengono straziate dal cemento.

Ma non è l’albero stesso a straziare la terra,
a stritolarla per trarne il nutrimento?
Ciò che scrivo è così? Nello stesso momento
mi rappresenta e de-rappresenta.

Quello che scrivo mi frantuma in parti
che, caoticamente, cadono al suolo denudandomi,
come le foglie a settembre spogliano gli alberi.

Ognuna di queste frasi
mi risulta – e forse è – sconnessa e sfida semantica, grammatica, logica.

Questo è il diario di come sto andando via da me,
di come ogni frase si allontani da me
frantumando i confini tra me e l’ambiente.

Resta solo qualche disegno, suono,
immagine, lettera
o odore ma è tutto

così

in
si
gni
fi
can
te.

Frammento di personaggio femminile

“Che volevi dire?”

“Non lo so. Volevo solo che andasse via.”

“E ci sei riuscita. Ma proprio bene. Complimenti.”

“Era un meschino.”

“Ma che ti ha fatto?”

“Mi ha dato fastidio.”

“Che ci sei uscita a fare, allora?”

“Per parlare.”

“Ma di cosa?”

“Di cose. Sembrava un tipo interessante. Ma poi: il buco nero. Argomentava il niente”

“Potevi almeno sopportarlo per qualche altro minuto. Magari finiva che te lo facevi piacere.”

“Ma perché… Mi serve un uomo per forza?”

“Hai trent’anni.”

“Embé?”

“E’ tardi…”

“Ma tardi per cosa? Che vuoi capire tu. Sei fidanzata da quando sei stata capace di intendere e di volere. E, da allora, sempre con lo stesso. Che ne sai tu della vita?”

“Questa poi! Io della vita ho capito certo più cose di te, che ti crogioli nella tua solitudine. Guarda invece io e A. come siamo felici.”

“Felici? Felici? Voi due? Ma secondo te io dovrei prendere spunto da.. Due miserabili.. Come voi?”

“Miserabili?”

“Si, miserabili. Siete la vostra vicendevole rovina. Vi anestetizzate a vicenda vivendo, ognuno, le paranoie dell’altro. Non siete un esempio”

“Che ti abbiamo fatto di male? Solo perché ci amiamo… E tu sei sempre sola? Invidiosetta?”

“Ma vi vedete? State insieme da quando avevate sedici anni. Non avete conosciuto altro. Non fate niente altro che mangiare, uscire… Scopate quando capita, giusto quel sesso quasi-procreativo, nazional-popolare. Parlate, se parlate, di stupidaggini. Se uscite con qualcuno, parlate di ciò che avete fatto. O di ciò che altri hanno fatto. Fate cose per avere cose di cui parlare. E parlate di cose per trovare cose da fare prima per parlarne poi. Non avete niente altro di cui parlare. Niente idee. Niente. MA vi rendete conto? Siete già morti.”

“Stai proprio esagerando. Non ti permetto di parlare della mia storia in questo modo. Io ti sono amica, è vero. Ma sono l’unica. E questo non è un caso. Li hai fatti scappare tutti. E di questo passo…. Cioè.. Sei tu la strana. Io ho altri amici. IO! E gli altri miei amici – MIEI!- sono normali”

“Certo loro sono come te. Senza aspettative. Senza prospettive. Si guardano vivere. Passivi spettatori delle loro stesse esistenze. Ma ti ricordi l’ultima volta che sei stata felice? NO! Fai sempre le stesse cose. E’ sempre tutto uguale.”

“…Ah! E quindi saresti tu quella diversa? Tu quella buona! Solo perché sei una scorbutica? Solo perché pensi di essere la migliore di tutte? Ma ti sei vista? Sei sola come un cane? Tieni pure le zampe di gallina! Quel ragazzo, D., è l’unico che ti ha pensato minimamente. E gli hai praticamente sputato in faccia. E ti aveva offerto solo una rosa.”

“Ti ripeto, mi ha dato fastidio. Era un gesto stereotipato.”

“ Quando è stata l’ultima volta che hai scopato? Quanti anni fa?”

“Ma che cazzo c’entra? Ora perché non c’è un maschio buono nel raggio di un milione di chilometri devo scoparmi il primo che passa. Ma che me ne fotte di questi energumeni. Questi palestrati con Bukovski in bocca e un anabolizzante in culo. Come ci si può innamorare di questi gusci di noce? Ora tu stai finendo per pensarla come le tue amichette-ochette che perché hanno trent’anni si fanno ingravidare dal primo che capita. ”

“Tu ragioni proprio male. Ma che ti avranno fatto alla nascita, non so? Eppure tua madre era normale.”

“Che c’entra mia madre? Ma non lo vedi che la vera pazza sei tu? Incatenata alla tua routine. Al tuo dovere. Hai già i doveri coniugali e non te ne fai un problema! Respiri solo per sopraffare il passare del tempo.”

“No.”

“Ecco. Non hai argomenti. Perché…. Perché….. Si! Tu ….. Sei una cretina. Va bene, l’ho detto. Sei una cretina. E ci sei nata, non è nemmeno colpa tua! Ci nascete cretini, ci nascete schiavi!!

“Stai pisciando fuori dal cesso. Questa è la volta buona che la nostra amicizia va a puttane. Ma a che mi serve una come te? HO altre amiche. NORMALI!”

“Non ti servo a niente! Ma ora perché non te ne vai a fare in culo?”

“Me ne vado.”

“Brava vai. Io posso parlare anche da sola. Non me ne frega proprio un cazzo. Che stavo dicendo?”

“Stavi parlando della natura”

“Ah. Sei tu. Sempre nei momenti meno opportuni ricompari dai miei sogni infantili.”

“Non è colpa mia se faccio parte del tuo universo allucinatorio”

“Ho una mia crisi, vero?”

“Si, probabilmente. Sempre se non è diventato normale parlare con un gorilla di peluche.”

“Non proprio.”

“E allora… Welcome back.”

“Ok, allora ci vorrà del tempo. Stavo dicendo… E’ tutto dominio, potere. Morte. Tutti gli animali, dal più infinitesimale al più enorme hanno un unico motivo per vivere: dominare l’ambiente, cambiarlo a proprio piacimento. Soddisfarsi. Ma camminiamo. Ti ricordi quando da piccoli contavamo il numero di mattoni dei palazzi? Ora non ci riesco più. Comunque encefali, braccia, gambe, uncini, tentacoli, occhi, lingue, tubi digerenti, genitali… E’ tutto progettato per farci sopravvivere. Per distruggere gli altri. Gli animali, quelli veri non quelli di pezza come te, lottano per il dominio delle risorse, dell’acqua, del cibo, delle femmine. In certe specie le femmine sono sopraffatte dal maschio. In altre il maschio è sopraffatto dalla femmina. E’ tutto istinto. L’animale in natura vive nell’inconsapevolezza. Ma io no! Cazzo! Che cos’era quella rosa? Cosa volevi da me? Mi volevi sopraffare”

“Forse ti voleva semplicemente dire che ci teneva a te”

“Con un fiore morto?”

“Hai ragione. Ma io sono pur sempre un personaggio del tuo mondo interno”

“Touchè. Comunque un vantaggio c’è in questa storia. Siamo ormai due personaggi del mio racconto interiore. Credo che siamo all’interno di una storia su qualche libro o blog sperduto. Forse non siamo nemmeno ancora stati scritti. Forse qualche persona ci sta scrivendo al lume di candela, con la drum’n bass nelle orecchie. E c’è sicuramente qualcuno che in questo momento ci sta leggendo, altrimenti ora non esisteremmo. Quindi, almeno per adesso, esistiamo nella sua mente. Direi di andare a via Toledo. Fuori da Bershka. E ci stiamo davvero! Comunque. Come ha fatto la musica a evolversi da Mozart alla Drum’n bass? Non c’è niente di bello in quella vegetale morto. In quel fiore morto. Che decerebrato! Come poteva pensare di fare colpo su di me con un cadavere in mano. Quella stronza di L. non capirà mai. Gli animali, quando fanno sesso, non capiscono cosa stanno facendo. Lo fanno per foga. Lo fanno per necessità. Per natura. E lei ancora è fidanzata con quel decerebrato di A. Due animali. Due deficienti. Accoppiati. Figlieranno altri deficienti. Quando noi umani usiamo il termine “è naturale” sottintendiamo qualcosa di bello, di genuino. Ma cosa c’è di meraviglioso in questa forza che ci spinge verso la distruzione delle risorse? Cosa c’è di equilibrato nella necessità di uccidere il nostro simile che minaccia i nostri averi? Cosa c’è di fantastico nella proprietà privata? Negli oggetti che sono tutti armi per qualcuno. Nei denti canini. Perché sei così grande ora?”

“La vedi la pioggia di meteore?”

“Si. Sono dei cubi perfetti che cadono. Che cadono sul mare e si tramutano in navi di polistirolo. Gatte di polistirolo. Le gatte, quando hanno l’estro sono portate, inconsapevolmente, a rilasciare ferormoni e ad avere comportamenti per attrarre il maschio. Loro non sanno che ne saranno sopraffatte, come le onde dal frangiflutti. La natura le rende incoscienti di ciò che le aspetta. Il maschio di turno le assalterà, le sottometterà. Sembra tutto crudele, ma non c’è niente di crudele: è natura. E’ istinto. E io non ne voglio fare parte. Quel gatto maschio in realtà con quella rosa in mano non sta facendo niente di peggio di quello che potrebbe fare un altro al posto suo. E un altro. E un altro. Cioè hai capito? Il gatto, l’uomo.. E’ collegato…”

“Si. Come un gelato seduto alla guida dell’R4 e l’autista dell’R4 seduto sulla cialda. Collegati da un destino intrecciato.”

“Infatti! Perché vedi. Ma come ti chiami? Va bene. Comunque ciò che conta nel sesso è farlo prima. O era farlo bene? Ciò che conta è distruggere gli avversari. E’ portare avanti la propria stirpe invece di quella di qualcun altro. E per fare ciò, per trasmettere quel corredo genetico, la natura ci ha dato quattro zampe, un encefalo… Dico a noi, ci ha dato la necessità di mangiare e di bere. Ma da quando siamo diventati indipendenti da questa primordialità?

“Probabilmente mai.”

“Esatto. Questa cosa, per esempio, sta diventando più un monologo che un dialogo. Però credo che tu mi stai sentendo, forse direttamente nella tua mente, senza che io stia pronunciando nemmeno una parola. Ma come stai facendo?

“Non lo so, è come se ti leggessi direttamente nel pensiero. E’ come se quello che stai dicendo fosse stato scritto da qualcuno. E’ come se fossi nella mente di chi legge.”

“E’ un fatto strano. La natura ci ha incatenato qui, in queste carceri di carne e ossa. Ci ha condannato ai nostri bisogni fisici. Ci ha dato le antenne? NO! Ci ha dato le mani. E io ora sto parlando nel linguaggio dei segni, per dimostrartelo. Ma sento ancora la mia voce. Come è possibile?”

“Non lo so, mi sento strano. Non ho più gli occhi”

“La natura ha mutilato tutti gli animali della parola, tranne l’uomo. Ci ha concesso la bestemmia. La vita è questo, è duplicazione. E’ fotocopia. E’ una fotocopia imperfetta. E’ continuare a propagare un progetto fallimentare. La vita è mancanza di senso assoluto. Vedi la gatta, dopo essere stata posseduta dal maschio. E’ impaurita. E’ dolorante. Soffre. Ma qualche giorno dopo riprenderà a mugolare. Per farsi montare ancora, finché non resta incinta. La natura glielo obbliga, se ne fotte delle sue lacerazioni. Spero che quella gatta sia rimasta incinta con quella rosa. Durante la gestazione sarà in balia di sensazioni che non si potrà spiegare. Si sentirà male. E non saprà mai perché, non avrà alcun dottore da cui andare. Quelle sensazioni sgradevoli la porteranno a comportamenti stereotipati. Comportamenti che hanno garantito ad altre gatte prima di lei la sopravvivenza dei suoi figli. Mangerà di più. Si nasconderà di più. Combatterà contro quegli stessi maschi che aveva dolorosamente accolto dentro di sé. E poi quando partorirà, sarà l’apoteosi della sofferenza degli innocenti. Lei si vedrà partorire. Subirà letteralmente un travaglio e un parto. Si lacererà. E non capirà cosa le sta succedendo. Non ne avrà alcuna idea. Avrà paura. Cercherà riparo. Avrà dolore. Urlerà. Non potrà farci niente. E si vedrà circondata da questi esseri oscuri, glabri. Che avranno misteriosamente il suo odore. E i suoi livelli ormonali saranno favorevoli alla conservazione della vita. La prolattina salirà. Li allatterà. Ma non avrà alcuna idea di cosa starà facendo. Io non voglio essere cosi!!!! Siamo dei fasci di riflessi. Riflessi di ogni tipo. Siamo macchine che rispondono a segnali. Se ti spingo i tuoi muscoli ti mantengono in piedi. Se stai per cadere allarghi le braccia. Se apri la mandibola automaticamente si richiude e poi si riapre. Siamo fasci di nervi che controllano un macello di carne e ossa. Siamo in balia di un meccanismo distruttivo che ci spinge all’autoconservazione. Hey, ci sei? Vabbé.”

“Ci sono, ma forse mi sono dissolto”

“Come me, siamo polvere adesso. Possiamo girare dove ci va. Ma io resterei sempre qui, sul lungomare di Via Caracciolo. Mi piace, mi ispira… Comunque che stavo dicendo.. Ah.. La conservazione della specie. E’ tutto un meccanismo auto amplificato, la natura. LE piante vivono. Non sanno perché. Ma vivono perché gli animali si decompongono. Gli animali vivono. Ma non sanno che si dovranno decomporre. I nitrobatteri vivono. Ma non sanno che serviranno per il ciclo dell’azoto. L’acqua c’è. Ma non c’è verso che ricordi la prima volta che è piovuta. O la prima volta che è evaporata da un uomo uccidendolo di disidratazione. E’ tutto un ciclo. Ho sonno, tu?”

“Anche io, Guarda. Cos’è quel disco che sta calando nel mare?”

“E’ il sole. Sta finendo”

“Come noi”

“Come me”

Odore di vita

Negli ospedali ti assalgono una serie di odori. Odori di essere umano. Odore di ferro. Qualcuno perde sangue e sta macchiando il letto. Tu stai là e guardi e dici “è tutto normale, è solo sangue, non devo svenire”. Odore di merda, di urina, di chi sta dando la vita. Odore di sudore, di chi sta soffrendo. Ma c’è anche odore di sporco. Di chi ha bisogno di una assistenza più grande di quella di qualsiasi medico, di chi soffre tutti i giorni la solitudine e il disagio sociale e che tu sai che quando uscirà dal reparto che puzza di sterile fenolo tornerà a popolare i marciapiedi pieni di piscio di cane. E tu hai solo messo una toppa piccolissima al suo dolore. C’è quella sofferenza umana che tu senti, che percepisci e che sai che puoi solo scalfire. C’è odore di chiuso, nelle stanze, quando fa freddo. Anche ad agosto fa freddo perché, a volte, quel freddo viene da dentro.
I reparti sono popolati da suoni. Le urla di chi ha dolore. Quel dolore sordo, infame. Di cui tu conosci i mediatori chimici, le vie nervose e i meccanismi evoluzionistici. Ma che ti spiazza ogni volta. Il dolore che è una bestia che straccia le carni e la mente del malato. Chimera che devi affrontare affinché ti suggerisca una diagnosi buona. Dolore mutevole, che né le parole dei libri, né quelle del paziente possono spiegare. Dolore, Sfinge, che devi imparare a interrogare affinché ti suggerisca una diagnosi. Dolore che devi sapere evocare affinché traspaia un po’ di luce dal buco nero della malattia. Quando chiedi “dove le fa male?” e poi tocchi la carne proprio in quel punto, è perché devi prima evocare un demone per poterlo affrontare. Fai del male ma sai che c’è un motivo. Ci sono parole, sussurrate tra persone, che non conoscerai mai. Ma che capisci lo stesso. Ci sono singhiozzi di un figlio davanti al genitore morente. Silenzi di gioia di una madre con suo figlio tra le braccia. La faccia della soddisfazione della nonna col nipote in mano e che vorrebbe dirti “guarda qua mia figlia che è stata capace di combinare!” Ci sono i vagiti di nuova vita ma anche ansimi di morte. Spesso in due letti, l’uno accanto all’altro. C’è il tic irregolare del monitor di un cuore pazzo e il clac della fiala per lenire una colica. Nel frattempo è tutto un fremere di penne, pennarelli su cartelle e fogli terapia. Un intenso vocìo tra specializzandi e telefonate ad ogni reparto, ad ogni dottore, strutturato, professore che sappia dirimere un po’ la matassa. In ogni angolo di reparto è riassunta tutta l’umana frenesia nel voler abbattere la morte e la sofferenza.
Ci sono occhi, occhi che ti cercano. Occhi di chi sta soffrendo e cerca sollievo. Che quando ha la morfina ti ringrazia solo con quegli occhi. Ma anche gli occhi di chi odia. Persone che non capiscono perché stanno là, perché fino a ieri stavano bene, e non ti credono. Non possono razionalmente accettare di aver convissuto per 20 anni con un mostro che gli cresceva lentamente dentro e che ora pesa mezzo chilo e le uccide. E il medico e chi in sua vece è sono le uniche persone con cui se la possono prendere un po’ dato che hanno già bestemmiato ogni santo in terra e in paradiso. Ci sono gli occhi di chi è stanco di lottare e vorrebbe farla finita “Ma alla fine, che mi costa tentare” e ti sconvolge perché ride. Ci sono gli occhi di chi, semplicemente, è stronzo. Di chi si stupisce che in due ore non ha avuto una risonanza magnetica quando la macchina è rotta da una settimana. E vorrebbe spiegazioni. E tu sei l’ultimo arrivato ma vorresti lo stesso URLARGLI che il sistema sanitario è alla deriva per anni di politiche deficitarie concludendo il tutto con un sonoro ” Se ne vada in una clinica se ha fretta”. Poi ci pensi e ti rendi conto che il servizio sanitario ideale del tuo Paese è MEGLIO di qualsiasi clinica. Universale. Efficiente. Gratuito. Perché stare bene è un DIRITTO dell’UMANITA’ indipendente dai soldi! Ma mentre pensi a questo e stai in religioso silenzio parla lo strutturato, che ne sa un milione di volte più di te e che effettivamente riesce a riassumere tutto lo sdegno in un efficace “Forse se ne parla domani”. Ci sono anche gli occhi malevoli della signora dell’est che il caso ha voluto far capitare in stanza con una nigeriana. E che ti chiede, facendo la finta tonta: “Ma è contagiosa? Ma sa, non è per me, per il bambino”. E tu ti incazzi perché sai che lei te lo chiede solo perché le loro pelli sono così diverse. E stai partendo con una catilinaria ma l’infermiere ti precede con un melodioso “Per la privacy non le posso dire la diagnosi, ma posso assicurarle che non è contagiosa”. E tu lo guardi e pensi “Che sintesi”. Ma avresti aggiunto ” Ma veda di cambiare atteggiamento perché lei è una razzista di merda e dovrebbe saperlo bene dato che gli italiani sono razzisti in primis con lei” . Ma stai zitto. Calmo. E respiri, quanto puoi, la stessa aria di quella signora.
Con la mano senti il calore della pancia di una donna incinta. E si muove e, Madonna, ti gasi perché è ovvio che si muova però cazzo a sentirlo sotto la mano è wow. E cerchi di stare calmo e respirare. Sotto ai polpastrelli senti il bollore di una cicatrice chirurgica che deve essere medicata. Senti il gelo delle mani di chi sta andando in shock e si fa di tutto per mantenerlo ancora qui. Il contrasto tra la testiera del letto che è ruvida e la guancia del bimbo che è liscissima che manco il parquet del bowling.
In clinica è tutto un combattere contro la dannata empatia che ti obbliga a soffrire assieme a chi sta soffrendo. E’ tutto un trattenere le lacrime quando senti parole senza speranza uscire dalla bocca dello strutturato-che-tutto-sa. Perché sai che se lo strutturato non ha speranza, non c’è davvero speranza. Sai che quando un chirurgo che estirpa il male da dentro le persone con le sue mani e un bisturi dice ” mi dispiace”, You are dead. Le loro parole ribaltano tutto peggio di qualsiasi plot twist.
Guardi i guanti sporchi di sangue di chi apre addomi e ogni venti minuti regala dieci anni di vita all’umanità. E sai che sono mani come le tue, fatte di muscoli, ossa, tendini, nervi, vasi sanguigni. E vorresti essere solo un pochino figo come loro, magari fra quindici anni. E ti accorgi che durante una operazione i ferri e i guanti sono solo una barriera psicologica tra un uomo e l’altro uomo. Che chi sta con le braccia dentro un’altra persona le sta letteralmente togliendo la morte da dentro. Le sta sfiorando quei visceri che gli appartengono dalla nascita mentre le sta stracciando via quella merda.

Vorrei riuscire a descrivere solo una piccola frazione di quel sorriso, del sorriso di quella specializzanda  che sa che ha fatto di tutto in suo potere per far star bene qualcun altro.

Non ci riesco. Ma ce l’ho qui davanti agli occhi da ore, stampato.

L’inganno

Non leggere questa lettera prima che sia giunto il momento.

Edda,
questo settembre 1940 mi massacra. Una fiumana di foglie precipita dal castagneto del cortile. Il mio corpo giace inerme sulla scrivania. Di questi tempi in cui anche i vocabolari hanno imbracciato la baionetta è difficile trovare le parole. Ma io devo scrivere. Ti devo scrivere. Nella mano destra un sigaro toscano fissato al soffitto da una linea di fumo. Nella sinistra c’è invece una penna. Tutto è apparentemente immobile nel mio studio. Guardo il quadro di mio padre: il suo volto traviato dal tempo, le sue mani piene di rughe. Vorrei che ora fosse qui per chiedergli che fare. Vorrei farmi il segno della croce che mi insegnò lui. Ma le mie dita puntano al suolo, trascinate da un’incudine di quaranta quintali di sgomento. Un senso di morte mi impedisce di scrivere con sincerità.
Per nove mesi tua madre è stata la tua casa. Ieri sera hai deciso che era il momento e la nostra camera ti ha fatto da nido. Credo di non aver mai fumato così. Lucia aveva il respiro spezzato dalle contrazioni e le nostre mani sono diventate un tutt’uno per darti al mondo. E’ incredibile la forza che tu e lei avete sprigionato. La potenza delle donne che danno la vita è declinazione della natura pura. Siamo tutti figli della tempesta. Dolce sentire per la prima volta il suono della tua voce. Incredibile vederti così piccola arrampicarti sul corpo di tua madre per raggiungerle il seno. Ultraterreno vedervi così abbarbicate; ho realizzato che – visceralmente vi amo. Il senso di tutto ciò che sono stato, che sono e che sarò mi si è materializzato: i vostri cuori che battono all’unisono sono la ragione per cui ho vissuto fino ad ora.
Sembra tutto un gioco crudele. L’esistenza è una locomotiva di gioie e dolori e mentre tutto sembra andare bene improvvisamente la realtà si ribalta. Tu, seppure ti ostini ad essere felice, sei travolto dagli accadimenti della vita. E sei sommerso dal flusso. Qualche giorno fa ho ricevuto la lettera ruvida. Roberto, il postino, me l’ha lasciata tra le mani senza neanche guardarmi negli occhi. Lui sapeva già: chi riceve il timbro dello Stato parte per la chiamata alle armi. E non torna. La vita non è meravigliosa? Il giorno prima ti dà un motivo per ucciderti e il giorno dopo mille per sopravvivere.

Partirò domani e sono condannato a non conoscerti mai. Il cielo sarà a tratti squarciato dal plasma dei lampi. Non sarà una di quelle partenze di cui ho scritto in passato. Non sarà una partenza a lieto fine: non si torna indietro. Le gocce di pioggia delineeranno il profilo di un gruppo di uomini in attesa e di un treno. Scena banale, già vista. Ma stavolta sarà il mio l’impermeabile bagnato dalle lacrime. A nulla serviranno i gradi fasulli sulle divise a contenere l’acqua che scaturirà da dentro ai nostri animi. Tu e tua madre sarete sulla banchina e io dovrò salire quelle dannate scale sapendo di lasciarvi vivere senza di me. Dovrò entrare in quella odiosa carrozza con la consapevolezza di dover guardare per l’ultima volta il tuo corpo. Dovrò straziarmi nel guardarti ferma sulla banchina mentre mi allontano. Andrò via da te. E morirò senza di te.

Figlia mia, vorrei esserci in questi anni. Vederti camminare in soggiorno nel momento in cui, un piede dopo l’altro, vincerai la gravità. Vorrei curare le ferite che inevitabilmente ti farai. E darti la mia spalla per i graffi che ti faranno. Vorrei esserci quando fiorirai e le tue gote si animeranno come quelle di tua madre. Farei volentieri “ildiscorso” a quel ragazzo che, fortunato quanto me, ti amerà.

Ti lascio, codardamente, questa lettera.
Spero di rincontrarti, un giorno, chissà dove.

Vivi serena, vivi libera, ama, se vuoi.
E se puoi perdonami.

Tuo padre.

Il nonno dal cuore di ferro

Il nonno dal cuore di ferro

Ieri sera era il tuo onomastico e volevo scrivere qualcosa su di te. Vederti così spaventato e arrabbiato, per la malattia, mi ha portato alla mente di quando eri bambino ed andasti a vedere “La mummia (1932)” al cinema e c’era il coprifuoco e che quando uscisti c’era il buio pesto e avesti tanta paura. Magari di quando fosti evacuato per i bombardamenti con la tua famiglia a Baiano e dormivate con i topolini, in un granaio, al lume di una lampada ad olio, nella paura di una esplosione.
Forse avrei scritto di quando c’era il duce e tu e tutti gli altri bambini non ne capivate niente al punto che, quando venne Hitler a via Caracciolo, il suo “saluto fascista” vi fece ridere perché sembrava che stesse controllando se piovesse. Poi, forse, avrei raccontato qualcuna delle mille avventure di quando con tuo padre vendevate le scarpe alla gente, ai soldati americani, ai ricchi e ai poveri..
Chi lo sa se poi avrei scandagliato le circostanze per cui incontrasti la nonna Virginia Stizzo e di quanto la vita sia in grado di farci incontrare chi si incastra con noi. Di come vi siate stati vicini, nel bene e nel male, di come vi siate fatti forza a vicenda, di quanto vi siate amati. Di quanto tu e lei sembravate dei nonni speciali quando ad Ischia mi preparavate quei sandwitch che allora mi sembravano buonissimi e di quanta forza avete saputo infondere in tutti noi.

Avrei potuto descrivere il tuo odore e chi lo sa quanti episodi della mia infanzia che ti hanno visto protagonista. Di quanto sembrassi agli occhi di un bambino come me un nonno eroico e nel mio immaginario inossidabile. INOSSIDABILE.

Potevo scrivere di tutto questo ma non l’ho fatto. Perché dentro di me regna una profonda amarezza. Da piccolo avrei detto: ma come, uno che ha passato un intervento a cuore aperto, che ha il cuore di ferro ( una valvola aortica )che fa clik-clack da decine di anni come può ammalarsi più? Da giovane adulto dico: com’è possibile che tutto quello per cui abbiamo lottato, la nostra identità, i nostri ricordi, ci siano sottratti in maniera così subdola? Perché, pezzo dopo pezzo, te ne vai? Come è possibile che la mente si sgretoli come una scogliera nello stesso tempo accarezzata e demolita dalle onde del tempo?

La vecchiaia è una brutta bestia, dicevi. Ed è vero e lo sto capendo adesso grazie a te. Molti mi accusano di essere troppo “cerebrale” ed hanno pure ragione; ma non sanno quanto quel bambino che sta ancora dentro di me vorrebbe ritrovarti a martellare le suole delle scarpe nel salotto. Quanto ti vorrei vedere in salute con il cappello in testa colorato col caffé a prendere il sole sulla sdraio nel patio di Rio Claro. Quando vorrei poter donare anche un anno interno della mia vita per vederti sorridere anche solo un attimo. Quanto ti vorrei trovare presente, consapevole, in piedi? Ma so che è impossibile. E questa esperienza dolorosa ha cambiato anche la mia concezione della medicina e del mio futuro.

L’altro giorno mentre stavamo comodamente pranzando, ti sei messo a piangere. E lo hai fatto perché avevi paura che il cibo non bastasse anche per i tuoi defunti genitori, che ne tuo immaginario sono ancora qui. “Glielo potete portare anche a loro?”. Questo mi ha fatto capire quanto tu sia autenticamente buono, nel profondo del tuo animo. Dicono i presunti saggi che la vita è così, che è un ciclo infinito e che è normale che chi si è curato di te finisce per essere curato da te. Ed io dico: ben venga, bene, bravi, applausi. Ma, cari signori saggi, allora la vita è proprio uno schifo. Perché costruisci per quasi cento anni e non ti resta niente? Forse la chiave è che resti dentro gli altri. E quindi forse la vita non è proprio una merda: è una una meravigliosa merda.

E allora buon onomastico, caro nonno Carmine . Sei rimasto dentro di noi e cresci rigoglioso come non mai. E campa altri cento anni senza però fare troppo disperare la nonna. Resta qui che abbiamo bisogno di te.

Se i grandi film fossero z movie – Prima parte

Jurassic Reich- Grottesco

Il chimico Alan Grant e la paleopatologa Ellie Sattler vincono alla lotteria due biglietti per visitare Isla Nublar, una piccola isola dei caraibi. Durante il viaggio si ritrovano seduti l’uno accanto all’altra e scoprono di avere la stessa cicatrice sulla mano. Sono stati entrambi parte di un progetto segreto sulla clonazione umana per la ricerca dell’uomo puro ariano. Scoprono quindi che l’isola è il frutto della fantasia di un eccentrico architetto minimalista e che ogni edificio sulla stessa è squadrato e di color bianco. Incontrano John Hammond, uno dei fisici del progetto Manhattan, rimasto accecato dalla radiazione nucleare. Arrivano al palazzo centrale dove c’è il dottor Henry Wu ad aspettarli. Scoprono da un filmato dell’epoca che egli è il medico nazista che tenne prigionieri i loro genitori durante il III Reich. E’ quindi tutto parte di un progetto. Nonostante i loro tentativi di sfuggire e l’aiuto dell’oscuro agente segreto Tyrannosaurus rex, si ritrovano al centro del complesso. L’abuso di acidi del regista si chiude con una scena orgiastica dove i personaggi si accoppiano con galline antropomorfe ma ariane e il signor Hammond riprende la vista per affermare la criptica frase “ Sto venendo”.

Un esorcista in famiglia– Commedia

Durante una giornata al mare la giovane Regan trova una tavoletta ouija. Fuorviata dalla visione del film omonimo inizia a giocarci ed evoca il demone Paneesalame che la possiede per qualche minuto e và via, lasciandole una sciatica tremenda. Regan inizia a dare segni di squilibrio e a chiedere costantemente della vodka per alleviare i dolori. La madre che è contraria alla medicina ufficiale le pone al collo una statua della Madonna Incoronata di Pompei che effettivamente dà sollievo alla figlia. Grazie ad una conoscenza nella ASL la giovane Regan ha una visita medica di stramacchio da un medico ortopedico(Massimo Boldi) che le consiglia di fare del “dolce su e giù” mentre viene portato in una camera imbottita da dei portantini. Il tentativo fallito di una visita ortopedica porta l’ultracattolica madre a rivolgersi ad un sacerdote esorcista. Egli, affascinato dal corpo della madre, scioglie i voti e fugge con lei, possedendola infine su una porche presa a noleggio. Il signor MacNeil, scoprendosi cornuto, si avventa contro la figlia Regan, attribuendo tutte le colpe alla sua sciatica. La giovane ragazza guarisce miracolosamente e ha una visione sul fatto di non essere la figlia biologica del padre. Il film si chiude con un doppio matrimonio: Chris, e l’ex Prete e Regan e l’ex padre si sposano e iniziano così le riprese del sequel.

Inside-Out – Giallo

Riley, una silenziosa ragazzina transgender, viene trovata morta in una stanza d’albergo dalla domestica. Su ognuna delle pareti della stanza una scritta : Gioia, Disgusto, Paura, Rabbia. Sulla fronte della ragazza capeggia, scritto a pennarello, la parola Tristezza. Le circostanze della morte spingono l’ispettore Scott ad aprire un fascicolo per trovare l’assassino. Nel commissariato arriva il referto dell’autopsia che conferma la morte per strangolamento e l’assenza di violenza sessuale. L’ispettore interroga quindi i genitori che, indaffarati da un trasloco, non si erano nemmeno resi conto della sparizione della figlia. A scuola l’interrogatorio ha gli stessi esiti e si conclude con una scena di alta tensione erotica tra il commissario e una maestra quasi in pensione. Dall’ispezione dell’armadietto si scopre che esso è ricolmo di rose e di scritte riportanti i sentimenti sopra citati. Tutti gli indizi portano al garzone del fioraio, persona veramente cupa e dalle movenze effeminate, che confessa l’accaduto e spiega in un lunghissimo flash-back tutta la storia. Egli e la ragazza avrebbero intrapreso un delicato rapporto BDSM basato sull’esplorazione delle emozioni che si sarebbe concluso con la tristezza della morte. Il ragazzo viene quindi arrestato ma sul suo volto c’è un ghigno: il carcere era il suo fine, faceva tutto parte del piano.

The Wolf of Devil Street – Epico

Giordano Belfort inizia la sua carriera come apprendista di un monaco benedettino. È quest’ultimo che lo introduce all’ascesi e alla meditazione. Giordano segue la vita della purezza e ben presto prende i voti. Poco dopo il ragazzo incontra Donato Azoff che sarà un suo compagno di avventure. Iniziano insieme un percorso di purificazione, di astinenza dal sesso e di profonda autoflagellazione che culminerà nella passeggiata del diavolo. Narra la leggenda che, al termine della strada, ci sia la vita eterna. Intanto il diabolico Patrizio Denham inizia a seguirli e a fuorviarli sulle sacre scritture. A causa della tentazione sempre maggiore Giordano decide di abbandonare per qualche giorno il cammino e, caduto in un dirupo, verrà salvato in volo da un’aquila. Decide così di riprendere il cammino. Quella stessa notte durante una violenta visione Giordano vedrà la fine del mondo e capirà di essere il nuovo Cristo. Si vestirà solo di stracci e continuerà il cammino prima con l’aiuto di Donato e alla fine da solo. Il film termina con la visione di una luce che, dal termine della strada del diavolo, si irradia a tutta l’umanità.

Apocalypse Noir

Il film si apre con la scena del colonnello Kurtz, uno dei più alti gradi dell’esercito americano, che entra nella stanza di un albergo malfamato. Il giorno dopo il sergenteWillard percorre la strada principale del Bronx con una serie di squinternati sulla jeep. Sono dei ragazzi di un centro sociale che sta portando ad una visita medica per farli arruolare con la forza. Ad un certo punto una gang di neri con gli stereo con Wagner a palla cerca di bloccare l’ufficiale con degli AK47. Vedendosi i minoranza egli riesce a fuggire ed a rifugiarsi nell’albergo malfamato. Qui trova un stanza aperta e trova il colonnello Kurtz che abbaia con un guinzaglio. Lo fotografa e poi gli chiede che cosa faccia. Il colonnello giustifica i propri vizi in nome della difesa della patria vagheggiando di essere un eroe dei nostri giorni. Si scoprirà poi che la gang di neri ha una bomba sporca nel seminterrato e in cambio dell’umiliazione di un agente a settimana, evita di farla scoppiare. La guerra secondo Coppola è molto più di un esercizio tecnico: stravolge e sconvolge anche l’uomo più inerte e ligio, rendedolo sporco e inerte in balia del caos della violenza.

Il barbone di via De Pretis

Fuori alla banca, sul basolato,
un uomo giace abbandonato.
Qualche curioso che passa lo guarda
e c’è chi lo sposta con la scarpa.

Poco più avanti c’è un bar carino
dove la gente prende il cappuccino
e mangia i cornetti, poco distante,
da dove un uomo soffre costante.

Chi a bocca piena dice “è un povero asociale”,
lo sdegna come “un povero animale”,
da lui si scosta perché è “lurido e sporco.”
Poi lo spazzino dice “Forse è morto”.

“E’ morto? Chiamate un dottore!
Quest’uomo ha avuto un malore!”
“Forse ha una brutta malattia?”
La gente si sposta, paga e va via.

Siamo rimasti lui, un gatto e io
per qualche tempo di lungo oblio
poi è arrivato il professore
con una macchina dal gran motore.

Si china un po’ svogliato:
“Niente polso o respiro. E’ crepato.
E’ morto al freddo, come un cane,
è inutile portarlo all’ospedale.”

“Ma chi era? Chi ha abbandonato?
O forse è meglio dire “Chi l’ha abbandonato?”
A nessuno interessa questo dettaglio
perché il cadavere ostruisce il passaggio.

“Lo conosco io, è lo zio Gennaro
vende la stoffa nel mercato
ha tre figli Nino, Rosa e Carlo
la moglie suicida, la casa in sfratto.”

Io, sentite queste parole,
mi misi a ridere per l’errore:
“Voi vi sbagliate, amico mio
Gennaro il tappezziere sono io!

I miei figli stanno a casa
e mia moglie fila ancora la lana!”
Ma nessuno mi ascoltava
mentre la salma veniva spostata.

Allora urlai ma le mie parole
come in un pozzo sembravan cadute
e le mie mani prima curate
divennero ruvide, come vetrate.

Quel gatto nero che stava in disparte
cominciò a strusciarsi sulle mie gambe
forse cercava un po’ di calore
o forse a me di dare tepore.

“La morte non ha nessun altro da cui andare
che da Gennaro, un uomo esemplare?
Una persona semplice, un tappezziere,
un uomo che si è inventato un mestiere?”

Il gatto non rispose e continuò a girare
e un poco mi spinse a camminare
verso la salma dal feretro infeltrito.
Guardai dentro: il morto ero io.